Dall'alto dei miei tre anni universitari di Musicologia, tramutatisi poi in anni di Lettere, decisamente più interessanti (mannaggiammè che non c'ho pensato prima), non so assolutamente dirvi se Luciano Pavarotti fosse realmente il numero uno. Questa la dici lunga sulle tracce musicologiche rimaste all'interno dei miei neuroni.
So solo una cosa: l'ego di Pavarotti era direttamente proporzionale al suo peso. Un bene, un male? Chissà, anche colui che sta scrivendo questo post in quanto ad ego non scherza. Big Luciano ha fatto impazzire direttori, colleghi, musicisti? Bà, sono tante le storie che lo ritraggono così. Già, perchè lui non era un tenore amato da tutti.
V i propongono qui sotto un articolo di Paolo Isotta che fa riflettere. Luciano Pavarotti era un analfabeta musicale, a-ritmico e con un ego grande così. E' questo il ritratto che esce dalla penna di Isotta.
Ammazza che tatto Isotta, si potrebbe dire che anche in questo caso l'ego non è mancato. Si può scrivere così ad un giorno dalla morte? Sì, assolutamente sì. Credo sia la cosa più corretta: altrimenti ci si trasforma tutti in esseri dalla dubbia intelligenza che applaudono chiunque e qualunque cosa entri in chiesa sotto forma di bara.
Cosa ne penso io di Pavarotti? Era un grande artista, ci ha fatto conoscere al mondo (mafia, spaghetti, Pavarotti e Baggio). Ha sdoganato la lirica, quello sì. Sono dispiaciuto. Come sono dispiaciuto per la prematura scomparsa di Gigi Sabani.
Di Paolo Isotta
Vorremmo ricordare il tenore emiliano com'era ai suoi esordi, rimuovendo i detriti limacciosi accumulatisi con gli anni. Da tenore «di grazia », emulo di Tito Schipa, il quale è ovviamente irraggiungibile, cantava nel «mezzo carattere» dell'Elisir d'amore e della Sonnambula. Possedeva un timbro delizioso ch'era immagine di giovinezza, fiati lunghi e sani e quella splendida chiarezza di dizione che non l'ha abbandonato mai.
Sotto quest'ultimo profilo, anche nei periodi meno felici, Pavarotti restava esempio d'una vecchia scuola italiana gloriosa: quando cantava si capiva ogni parola. Contemporaneamente praticò con lo stesso successo il repertorio «lirico»: a esempio, il duca di Mantova del Rigoletto. Lo si volle accostare a Beniamino Gigli e, ripeto, per bellezza di timbro e chiara dizione ne era un erede. Ho un prezioso ricordo d'un testimone oculare quanto autorevole. Interpretava questo ruolo al Massimo di Palermo sotto la bacchetta del grande e burbero Antonino Votto. Rientrando il Maestro in camerino dopo la recita, borbottava: «Nunn' è ccosa!».
Perché un direttore di tal calibro era scontento d'un delizioso tenore? Pavarotti possedeva in radice difetti da definirsi in radice che i pregi della giovinezza dissimulavano ma non potevano cancellare. Egli era un analfabeta musicale, nel senso che non aveva mai appreso a leggere la notazione musicale: le opere doveva impararle a fatica nota per nota con un tapeur paziente. Questo è ancora il meno. Egli era a-ritmico per natura, non era possibile inculcargli se non in modo vago la nozione della durata delle note e dei rapporti di durata.
L'Opera lirica non è il canto del muezzin, è prodotto di accompagnamento orchestrale e richiede voci che s'accordino fra loro. S'immagini Pavarotti nel Sestetto della Lucia di Lammermoor…
Per avere quest'eccezionale cantante si doveva passar sopra a molte, a troppe cose, e così si ricorreva a direttori d'orchestra abili nel «riacchiappare » il tutto quanto pronti a chiudere tutti e due gli occhi sul rispetto della partitura musicale. Questo difetto è con gli anni aumentato, giacché Pavarotti, il suo vero torto, non aveva e non voleva avere coscienza dei propri limiti.
Col crescergli un ego caricaturalmente ipertrofico diventava sempre più insofferente delle critiche, anche solo degli avvertimenti affettuosi, come affrontava zone del repertorio che gli erano precluse dalla natura e dall'arte.
Da qui alle adunate oceaniche nei continenti, cantando egli con amplificazione, alle manifestazioni miste con artisti leggeri, magari più musicali di lui, alle canzoni napoletane detestabilmente eseguite, al suo abbigliamento carnevalesco, ai prodigi di cattivo gusto, è stato tutto un descensus Averni: ogni passo ti tira il successivo. E pensare che aveva cantato col maestro Karajan.